Sabato, 20 Aprile 2024

Quella mamma potevo essere io

La tragedia dell’Ospedale Pertini di Roma sembra avere scoperchiato un vaso di Pandora fatto di dolore e malasanità.

La storia è raccapricciante e si fa fatica persino a raccontarla: una mamma, stanchissima dopo il parto, si è addormentata soffocando il neonato.

Un fatto gravissimo che incrocia malasanità e “violenza ostetrica”.

La mamma aveva chiesto un attimo di tregua, stremata dal parto e invece le hanno lasciato il bambino in braccio. 

È questo forse un caso di violenza ostetrica: un insieme di comportamenti che hanno a che fare con la salute riproduttiva e sessuale delle donne, come l’eccesso di interventi medici, la prestazione di cure e farmaci senza consenso, o la mancanza di rispetto per il corpo femminile e la libertà di scelta della donna. 

È un problema abbastanza diffuso, visto che (secondo una recente indagine Doxa) il 21% delle mamme italiane con figli di 0-14 anni dichiara di aver subito un maltrattamento fisico o verbale durante il primo parto. 

Durante l’esperienza che dovrebbe essere la più emozionante nella vita di una donna, 4 mamme su 10 dichiarano di aver subito azioni lesive della dignità personale.

Si parla di 1 milione di madri in Italia che affermano di essere state vittime di una qualche forma (fisica o psicologica) di violenza ostetrica alla loro prima esperienza di maternità. 

Numeri che fanno spavento e che sembrano essere confermati dalle moltissime testimonianze raccolte sul web di madri che condividono la loro esperienza di post parto. 

Tutti i racconti hanno un minimo comune denominatore “Quella mamma potevo essere io”.

Eleonora de Majo, ex assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli racconta sulla sua pagina Facebook:

“Ho letto la storia terribile del neonato di tre giorni morto in ospedale, soffocato tra le braccia della mamma che si è addormentata mentre lo allattava. 

Uno strazio terribile.

La notizia mi ha riportato alla mente le prime notti trascorse in ospedale, subito dopo il parto. 

Come tante ho avuto la sfortuna di partorire durante la pandemia ed era vietato ai parenti di poter passare la notte con la paziente neo-mamma. Non so se ora le cose sono diverse ma insomma non è tanto questo il punto o almeno non solo.

Ricordo che la prima notte, dopo un cesareo fatto alle 6 di sera ho dovuto chiedere io al nido di non tenere Gabriel con me , considerato che avevo una flebo in un braccio e con l’altro non riuscivo a fare nulla. 

Dalla seconda sera in poi il piccolo doveva passare la notte con la mamma. Non importava se la ferita faceva male, se non sapessi come muovermi.

La regola era questa.

Il risultato è stato che grazie ad una dose di adrenalina di cui il mio organismo da sempre abbonda non ho chiuso occhio per un’intera settimana perché quel buio, quella solitudine, in una condizione fisica non esattamente ottimale, mi terrorizzavano. 

Ora io non so come siano andate le cose al

Pertini di Roma ma so che questa idea lasciare sola una neo-mamma a meno che non paghi profumatamente una clinica privata è sbagliata. Anzi è disumana.

Il parto naturale o cesareo che sia è faticoso. Non è una passeggiata come purtroppo raccontano anche tanti medici uomini. 

L’impatto con la maternità non è uno switch, non è come accendere un elettrodomestico che premi ON e funziona.

Soprattutto la stanchezza di una mamma non è una colpa, non è un vizio, non e’ una impreparazione che va giudicata.

Perché poi succedono le tragedie, e ci si chiede come sia stato possibile.”

E ancora il racconto social di Federica Chicca Meogrossi: 

“Avevo 33 anni e già avevo un figlio. Il parto, sebbene indotto, era stato veloce e Matteo stava bene, almeno così mi dissero, dato che passai le ore dopo il parto in sala travaglio, per assenza di letti, senza vedere mio figlio.

Quando iniziai a urlare, mi portarono in una stanza e misero Matteo accanto a me. Matteo non ne voleva sapere di attaccarsi al seno e io, reduce da una terribile malattia che mi aveva resa invalida, ero stanca, tanto stanca.

Erano mesi che non dormivo, proprio per la malattia che mi aveva aggredita a metà gravidanza e mi sentivo disperatamente sola e inadeguata. Avevo già un figlio, lo avevo allattato mentre studiavo per un concorso, ero sopravvissuta alla diagnosi della sua malattia per la quale era stato operato a pochi mesi di vita, ero già madre, forte, forgiata, risoluta.

Invece ero stanca e Matteo, affamato di vita e di latte, piangeva.

Aiutatemi.

Signora, il bambino lo deve attaccare al seno.

Lo so, lo so, ma lui non si attacca.

Scusate, vorrei riposare un po'.

Signora, se portiamo anche via suo figlio, quando pensa che si legherà a lei? Lo tenga qui e cerchi di allattarlo.

Così, per due giorni.

Matteo piangeva e piangevo anche io, devastata dalla stanchezza e dalla malattia. Avevo un occhio che non si chiudeva, ma avrei voluto comunque riposare un po'. No, non c'era tempo. Bisognava stare accanto a quel neonato in lacrime, senza far vedere le mie, di lacrime di disperazione, di inadeguatezza, di stanchezza, di dolore.

Signora, sono milioni di anni che le donne partoriscono.

Sì, ma io non sono una donna. Sono Federica, un bimbo a casa che mi aspetta, una malattia che non mi dà tregua e un neonato che ancora non conosco e che, in questo momento, non so nemmeno se amo.

Chissà perché, quando una madre mette al mondo un figlio, non le si affianca qualcuno che le dica che è tutto normale, il suo senso di sgomento, la sua paura, la sua stanchezza. Alle donne si dice che è normale partorire e tornare a casa con i punti, che è normale sacrificarsi, smettere di dormire, mangiare a orari normali, fare una doccia.

Un tempo, accanto a una donna che aveva partorito, c'era un paese intero.

Oggi, se va bene, c'è tua mamma che viene a cullarti il piccolo mentre ti lavi i capelli. E i pianti, le piccole grandi disperazioni, il fatto di sentirsi sbagliata se il latte non arriva, i piatti sul lavello e i capelli sporchi restano cosa tua.

Dovrebbero insegnarci una versione meno edulcorata della maternità e, ugualmente, darci la possibilità di non sentirci sbagliate se chiediamo aiuto. Perché la maternità non è sempre bellissima come raccontano le pubblicità e noi, prima che madri da secoli, non siamo altro che esseri umani che soffrono, sbagliano, si stancano come tutti quelli che puntano il dito e, magari, dall'altra parte della barricata non si sono stati mai.” 

Sempre su Facebook scrive Giulia Dinallo:

Li ho messi anche io nel letto insieme a me, fin dall’inizio. 

Si calmavano, mi sentivano, mi odoravano, mi toccavano e li toccavo, mi calmavo anche io, fino a poche ore prima eravamo uno stesso corpo.

Mi sono addormentata anche io innumerevoli volte mentre li allattavo, li ho messi anche io innumerevoli volte a rischio, ma non ero sola mai, perché nessuno ha mai preteso che riuscissi ad avere il controllo di tutto in giorni di stanchezza e cambiamento tanto intensi, tanto emozionanti, ma tanto devastanti.

Non ho parole adatte, ma il mio augurio più grande è che in questo fine pena mai tu possa essere abile pugilessa, schivando il senso di colpa, attaccando ogni giudizio non richiesto, incassando con fatica un dolore così grande.

L’ho fatto anche io e lo abbiamo fatto tutte: non hai colpe.

Pretendere per tutte assistenza e cura adeguata, perchè non accada mai più.

E infine la testimonianza di Giulia Goggi:

"Poteva succedere anche a me...

Avevo vissuto un travaglio di 24 ore, partorito con induzione, episiotomia e partoanalgesia, avevo avuto un'emorragia dopo la nascita della placenta e avevo avuto bisogno di una flebo. Per giorni non avevo mangiato e dormito. La prima notte incontrai un'infermiera comprensiva e attenta che convinse il nido dell'ospedale a tenere il bambino una notte così che potessi riposare e riprendermi.

Il giorno dopo, ancora stanca, in preda all'ossitocina e alla prolattina, convinta di dover mangiare poco ma bene per rimettermi presto in forma e allo stesso tempo nutrire al meglio il mio bambino, preoccupata per il latte che non arrivava, il seno che doleva, la schiena indolenzita e i capelli sporchi. Per un giorno e una nott3 non chiusi occhio praticamente ed ero ancora in ripresa. Lui voleva stare in braccio e poppare. Non ricordo nemmeno se era giorno o notte: vivevo nell'oblio in pratica.

Avevo il bambino in braccio, ero seduta sul letto stringendolo, mi addormentai. Non so nemmeno per quanto. Non so cosa mi abbia svegliato, so solo che in quel momento sono sobbalzata pensando che potevo schiacciarlo o poteva cadermi. 

Valerio poteva morire!

Potevo essere io, poteva essere chiunque, una qualsiasi donna. Oggi ci chiediamo cosa non funziona nel co-sleeping. Chiediamoci cosa non va nell'assistenza alle donne nel post parto.

Sempre che di assistenza si possa parlare..."

 

Giovanni Salzano
Author: Giovanni Salzano
Esperto di social media management, cura la rubrica di opinione Società.

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