Martedì, 23 Aprile 2024

Storie

Alfredo Troise: nei miei quadri dipingo l’occhio contro il pregiudizio

Nei suoi dipinti c’è la rivalsa di chi è stato scacciato da un pregiudizio inutile. Con i suoi pennelli dà voce su tela a chi, come lui, è stato spesso guardato come diverso.

La storia della piccola Diana: a lei è dedicata l’associazione Gli Unicorni di Diana

Trasformare il dolore più grande in speranza, per se stessi e per gli altri. È quello che hanno fatto Rossella Prezioso e Michele Bisceglia dopo la morte della loro piccola Diana, ad appena sei anni, a causa di un’aplasia midollare severa, mentre era in attesa del trapianto di midollo osseo.

 «L’amore che ci ha lasciato nostra figlia – spiega la mamma – è riuscito a non far incattivire i nostri cuori. Avevamo un gran bisogno di dare ancora voce ai suoi occhi e al suo sorriso».

Rossella, ci racconta la storia di Diana?

È iniziato tutto a ottobre del 2018. Diana aveva 5 anni e frequentava un corso di equitazione. Ricordo che in quel periodo non riusciva a gestire la stanchezza e mangiava anche poco. All’inizio non diedi peso a questa situazione, ma dopo qualche tempo le comparvero dei lividi strani sulla colonna vertebrale e poi delle piccole macchie intorno all’occhio, le cosiddette petecchie. Preoccupati, io e mio marito decidemmo di portarla dal pediatra.

Che cosa vi disse il medico?

Ci mandò con urgenza al pronto soccorso del Santobono e già dai primi prelievi emerse una situazione molto grave perché i valori erano tutti bassi. In particolare, l’emoglobina era scesa a 6, quindi le fecero subito una trasfusione e la trasferirono nel padiglione oncologico.

Quale fu la diagnosi?

Diana si era ammalata di aplasia midollare severa e quindi aveva bisogno di un trapianto di midollo osseo. Dopo qualche indagine io e mio marito decidemmo di tentare l’immunoterapia, così a novembre di quello stesso anno Diana fu ricoverata al Bambin Gesù di Roma. Purtroppo dopo quattro mesi di terapia non ci furono miglioramenti, così iniziammo la ricerca di un donatore di midollo osseo. Intanto Diana veniva mantenuta in vita con trasfusioni di sangue e piastrine e una serie di antibiotici che aiutavano a evitare attacchi di batteri e virus.   

E fu trovato un donatore?

Sì, a giugno del 2019. Era un donatore compatibile al 100 per cento, ma purtroppo dopo la terza chiamata rifiutò la donazione.

Che cosa avete fatto dopo questo rifiuto?

A luglio Diana iniziò ad avere la febbre, quindi decidemmo il ricovero. In poco tempo fu riscontrato che il suo polmone presentava un principio di polmonite. La situazione precipitò e Diana il 19 agosto ebbe un infarto, così fu intubata in terapia intensiva. Dopo una settimana decidemmo con tutti i primari che la stavano seguendo di asportare il polmone malato. L’operazione andò bene, ma la malattia non diede tregua: il cuore debole di nostra figlia cedette la domenica dell'8 settembre. Purtroppo non riuscimmo a donare neanche gli occhi, a causa delle varie infezioni che erano comparse.

Come siete riusciti a rialzarvi e ad andare avanti?

L'amore che ci ha lasciato Diana è riuscito a non far incattivire i nostri cuori. Avevamo bisogno di dare voce ancora ai suoi occhi e al suo sorriso. Tornati da Roma, in pieno periodo Covid, maturammo la sua assenza nel modo peggiore, ma eravamo consapevoli che nulla l'avrebbe portata più da noi. Tantissime persone ci contattavano per avere informazioni su come gestire la malattia: questo ci ha spinto a non chiuderci, a restare uniti per aiutare chi si trovava nelle condizioni che purtroppo noi avevamo vissuto in prima persona. Così cercammo di sensibilizzare sul tema attraverso tv locali e la pagina Facebook che creammo. Poi una cara amica che lavora al Pascale ci mise in contatto con la dottoressa Maria Rosaria Focaccio, responsabile della divulgazione e sensibilizzazione sulla donazione degli organi, tessuti e cellule presso la regione Campania. Ricordo che fummo accolti in un caldo abbraccio di comprensione e fu data voce al nostro bisogno di riscatto. Un bisogno di riscatto che era solo quello di raccontare la nostra storia, rendendo consapevoli i futuri donatori di midollo osseo. Così, il 30 febbraio 2022 è nata la nostra associazione “Gli Unicorni di Diana”.

Perché gli Unicorni?

Perché Diana adorava i cavalli e gli unicorni erano diventati il suo portafortuna in ospedale. L'unicorno è un animale mitologico, con un animo divino che unisce cielo e terra, un cavallo con le ali. Il cavallo in sé ha un animo gentile estremamente sensibile verso l'essere umano, e stranamente tutto coincide con il nome di mia figlia: la dea Diana descritta come protettrice dei boschi, veniva indicata come la cacciatrice che difendeva gli animali.

Che bambina era Diana?

Era una bambina molto allegra, amava gli animali e adorava stare in nostra compagnia, soprattutto insieme con sua sorella Giulia. Il suo desiderio non era diventare un fantino ma un veterinario per i cavalli. Era troppo matura e molto precoce per la sua età. Diana era molto sensibile ma anche nervosa, con un carattere fortissimo. Non le si poteva nascondere nulla, perciò è stato ancora più difficile gestire tutta la situazione.

Rossella, lei ha sperimentato in prima persona che la donazione di midollo osseo può salvare una vita. Purtroppo, però, si dona ancora poco. Perché secondo lei?

Perché non c’è molta divulgazione, e spesso c’è cattiva informazione. Credo che in uno Stato civile come il nostro debbano essere istituiti dei corsi informativi nelle scuole per spiegare agli studenti, sin da piccoli, che cosa vuol dire altruismo, che cosa significa pensare al prossimo. Bisognerebbe far capire loro che il mondo può migliorare con semplici gesti in cui ognuno può diventare la cura per un altro essere umano, donando una piccola parte di sé.

Per info clicca quiGli Unicorni di Diana

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“Sono quarant’anni che Claudio ed io, insieme nella vita e nella professione, facciamo questo lavoro e, sebbene salernitani, ci sentiamo napoletani 100% – racconta Diana – La canzone napoletana è un patrimonio che va conservato e, al tempo stesso, riattualizzato”. Dal 700 napoletano, passando per Caruso, fino a Pino Daniele: nel loro immenso patrimonio – eseguito rigorosamente unplugged – condensano tutto il senso di questo mestiere antico e che rischia di scomparire. “La posteggia ha un modo proprio di fruire della musica, ha delle leggi sue. Quando siamo a grandi feste capita che gli ospiti seduti in tavoli lontani si lamentino di non riuscire a godere dello spettacolo interamente, proprio perché io e Claudio ci spostiamo continuamente e non abbiamo amplificazione. Ma il senso della posteggia è questo: un rapporto intimo che si crea fra noi e i commensali del tavolo a cui ci accostiamo volta per volta”. Quest’anno il duo artistico sarà ospite di Casa Sanremo, format che segue e approfondisce i temi del Festival della canzone italiana. “Saremo ospiti di diversi programmi, fra cui di Salotto Writes 2024, angolo dedicato alla letteratura in cui intervalleremo le presentazioni e gli incontri con gli scrittori con intermezzi musicali a tema”. E dopo la bufera Geolier – il rapper napoletano in gara con la canzone “"I p' me, tu p' te" che ha aperto un acceso dibattito su quanto sia importante la grammatica nel dialetto napoletano – anche Diana esprime la sua opinione. “La lingua napoletana nella musica si tramanda soprattutto oralmente: pensiamo che alcuni parolieri della canzone classica napoletana erano analfabeti e si affidavano a scrivani che mettevano su carta i testi per loro”. Il legame fra il Festival di Sanremo e Napoli è forte e soprattutto di vecchia data: Diana ci tiene a ricordarlo. “Senza Napoli e la canzone napoletana non esisterebbe nessun Fesitval di Sanremo – scherza l’artista – Sanremo trae origini dal festival della canzone napoletana che si tenne per la prima volta nel 1931. Un fioraio che assisteva allo spettacolo ebbe poi l’idea di farlo diventare ciò che è adesso. Il resto è storia”.  

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