Giovedì, 18 Aprile 2024

La Destra vince, i 5 Stelle rimontano, il PD faccia mea culpa

di Sergio D’Angelo

L’ho scritto quasi ogni giorno negli ultimi due mesi, che la vittoria della destra andava solo quantificata e che l’astensione sarebbe stata da record. Avrei preferito avere torto, invece era una previsione fin troppo facile. Condivisa da molti, almeno fra noi persone comuni, ma evidentemente non dai vertici del Pd che hanno fatto scelte incomprensibili. E così la destra stravince e, soprattutto al Sud, l’astensionismo vola. Nelle regioni meridionali va a votare un elettore su due o poco più. Nemmeno questo sorprende, in una campagna elettorale che le ha ignorate, preferendo concentrarsi su un’autonomia differenziata a misura di Nord.

Tornando al Pd, dando per scontato che Letta non volesse spianare la strada alla Meloni, non riesco a comprendere su quali aspettative si basasse la sua strategia elettorale. Che so, sull'idea che il Pd potesse competere nei collegi uninominali? Che potesse essere il primo partito, credendo davvero all’autosufficienza? A me sembrano tutte opzioni un po’ meno realistiche del credere nell’esistenza degli unicorni. E io sono certo che Letta non crede agli unicorni. Mi sembra quindi doverosa oltre che inevitabile la sua decisione di non ricandidarsi alla guida del partito perché al Pd serve «un congresso di profonda riflessione, sul concetto di un nuovo Pd che sia all'altezza di questa sfida epocale» come lui stesso ha dichiarato. 

Ecco, dove vuole andare il Pd? Quali sono le sue prospettive, dopo la scelta suicida di restare ancorato al totem dell’agenda Draghi senza Draghi, sacrificando l’ipotesi del campo largo con i 5 Stelle, con la beffa supplementare di Calenda e Renzi che lo mollano per strada perché non viene accolto il diktat di tagliare anche Verdi e Sinistra italiana dallo schieramento? Il Pd si consegnerà a un centrismo minoritario in attesa di una eventuale - e per quanto mi riguarda poco auspicabile - emergenza economica dettata dai mercati per tornare al governo, senza essere stato eletto, nel ruolo dell’eterno partito dei sacrifici e della responsabilità? Oppure il partito democratico pensa di rifondarsi, ricucendo i fili di un fronte progressista? Il Pd si considera ancora davvero un partito progressista?

Nella Città Metropolitana di Napoli, la totalità dei 4 collegi uninominali al Senato e dei 7 alla Camera vanno al M5S. Nei restanti collegi della Campania, è la destra a fare asso pigliatutto. Niente di sorprendente: la disfatta del Pd è nazionale. Porta a casa solo un pugno di collegi in Toscana, Emilia Romagna, Lazio e Lombardia. Quello che più conta però è che l’esito di queste elezioni sarebbe stato profondamente diverso, se lo schieramento fosse stato più largo includendo i 5 Stelle. Certo, si può obiettare che la rimonta di Conte sarebbe stata meno rilevante, se non fosse stata affidata a una campagna elettorale molto identitaria. Ma davvero all’elettorato interessa questa lettura che appassiona gli addetti ai lavori, oppure gli elettori di una ipotetica ampia coalizione progressista avrebbero semplicemente voluto rassicurazioni e chiarezza su RdC, salario minimo, questione salariale, autonomia differenziata, diritti civili e transizione ecologica? 

Io opto per questa seconda ipotesi, ma dubito che il Pd sarebbe stato in grado di sottoscrivere un programma di questo tipo, se si parla di Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna e strenuo difensore dell’autonomia differenziata, come prossimo segretario. Appare comunque chiaro che non è ragionevole affidarsi alla sola capacità dei partiti, e in particolare al Pd, di ripensare sé stessi. Abbiamo davanti cinque durissimi anni per rimettere in moto un meccanismo che produca una mobilitazione anche fuori dai partiti, dal basso, dal mondo dell’autorganizzazione, dalle reti sociali. Ognuno di noi deve fare la sua parte. 

Author: Redazione

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